Un amico mi ha dato da leggere questo articolo e ho pensato che potesse avere senso dargli voce anche attraverso questo blog. L'articolo è stato scritto da MARINA CORRADI. Spero che la ripubblicazione su questo blog non crei problemi, ma nel caso in cui l'avente diritto su quanto scritto non fosse d'accordo sarà mia premura rimuovere il post.
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C’ è un dubbio che comincia a serpeggiare nelle più prestigiose università internazionali, dall’University College di Londra ad atenei americani: ma l’abitudine al web, la fruizione istantanea di milioni di informazioni, non toccherà le capacità di concentrazione e approfondimento? Non è che l’ipertrofia di una informazione universale e virtuale andrà a incidere sulle capacità cognitive dell’homo sapiens?
Insomma, per dirla brutalmente come la copertina della rivista americana
Atlantic, Google non ci starà rendendo cretini? Forse a noi, già adulti, no – o comunque peggiorerà di poco la situazione. Ma la domanda ci ha risvegliato un recente fugace sospetto, che non avevamo osato esternare.
Qualche sera fa abbiamo assistito a una lezione per ragazzi in un osservatorio
astronomico. Notte di quasi estate, Orsa maggiore, Orsa minore e le altre sorelle,
all’infinito. Nel silenzio rotto solo dai grilli il mirino di potenti telescopi mostrava, ravvicinata, una metà della Luna: crateri, ombre, accecanti deserti. Voce di un ragazzino, delusa:
« Ma, si vede molto meglio su Google! » .
Un soffio di inquietudine addosso. Senti, avremmo voluto dirgli, su Google vedi splendide foto. Ma questa, è la realtà. La realtà è infinitamente superiore a un’immagine sullo schermo. La realtà si tocca, si fiuta, talvolta si mangia. È concreta, è carne. Come posso spiegarti? Sarebbe come se tu, quando avrai una ragazza, ti contentassi di guardarla in fotografia, e non la volessi abbracciare.
La vicenda dell’osservatorio non è un caso. Qualcosa inquieta nei figli. Sembrano essersi così abituati a vedere il mondo attraverso il filtro di uno schermo, televisivo o di pc, da non distinguere più il virtuale dalla realtà. Vedono una cosa su Google e credono di averla già vista.
« Andiamo a guardare il Giro d’Italia che passa » .
« Ma l’ho visto in tv » .
No, non hai visto: non hai visto come è ripida quella salita, dal vero, e come sono fradicie le maglie dei corridori, e non hai respirato la passione di quelli che ai bordi aspettano, e incitano, e gridano. Credi di sapere già, e non sai niente.
( « Vedere è idèin, sapere è eidénai, cioè avere visto: prima si vede, poi si conosce: ogni pensiero proviene dall’esperienza » , annotò Hannah Arendt).
Addirittura, osservando una scolaresca arrivata davanti a San Pietro, abbiamo notato
come, prima ancora di fermarsi a guardare, estraevano camere e cellulari, a fotografare. Come non sostenendo la realtà, e dovendo tradurla subito in un’immagine per metabolizzarla. Se, poi, porti dei ragazzini in campagna, è facile che si annoino
rapidamente:
« Non c’è niente da vedere » .
C’è il mondo intero, invece – nidi, lepri, alberi, germogli, insetti – ma loro sembrano disabituati a guardare. Come mancasse il filtro di uno schermo; come se la realtà vera fosse quella virtuale. E stranamente passivi, poco capaci di inventare, di giocare. Come se un nesso fondamentale fosse stato incrinato.
« Si vede molto meglio su Google! » .
Leopardi, sotto una luna come quella dell’altra sera, scrisse il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. L’esporsi alla realtà provoca l’urto della domanda, l’anelito di una attesa. Prendere i figli a schiaffi non si può, l’ha detto il Consiglio d’Europa. Ma almeno per la collottola sì: alzati, vieni a vedere – l’erba, la coccinella, la pioggia, le facce, soprattutto le facce degli uomini.
Vieni a vedere il mondo, com’è davvero. È una foresta di segni.
Guarda, respira, tocca. Su uno schermo, è solo una povera copia.
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